sabato 24 ottobre 2009

Il senso del Coraggio

Coraggio è affrontare la morte senza timore! L'esclamazione a mio avviso appare primitiva ma piena di valore e di effetto, soprattutto se si analizza il concetto di morte. Morire non vuol dire soltanto abbandonare le spoglie terrene per cause biologiche, morte, di pari dignità a quella biologica, è la morte sociale data dall'indifferenza, dalla vecchiaia, dal silenzio del prossimo, morte è anche quella economica dell'indigente, del nullatenente, in sostanza morte è privazione, privazione di un valore, mancanza di qualcosa di essenziale, chiaramente nella sua estremizzazione mancanza della vita.
Se il mio assunto è vero allora il coraggioso è proprio quel valore che consente di affrontare la morte, in tutte le sue accezioni, chi lo possiede affronta Tanatos senza soccombere, o comunque tentando con tutte le sue forze di non soccommbere, in un anelito di vita che dà a chi ci crede, a chi ha coraggio, la forza di vivere e di risorgere ogni volta, di mantenersi in equilibrio su questo filo a strapiombo sull'oblio che è la vita di tutti i giorni.
Non vano pessimismo muove la mia penna, bensì volontà di dare ed acquisire coraggio, il coraggio degli eroi, il coraggio dei guerrieri, il coraggio dell'uomo che in questo mondo, grazie a questo valore morale, è riuscito nella più grande opera di colonizzazione che la natura abbia mai osservato nella sua millenaria storia.
Ecco cosa ci vuole coraggio, e non è vero che chi non ce l'ha non può darselo, mi si perdoni la citazione dotta, perchè tutti hanno coraggio occorre solo volerlo mostrare in un estremo sforzo che fa dell'individuo un essere baciato dal trasendente, nell'ennesima conferma che non l'istinto muove i nostri atti, ma il prometeico fuoco del sapere, mutuato dalla dimensione divina, non necessariamente nella dimensione della indebita appropriazione, quanto più come legittima imitazione.
CORAGGIO!

venerdì 23 ottobre 2009

rispondo e condivido

Caro Epimeteo,
ciò che tu dici è corretto ed io lo condivido pienamente, ciò che non posso apprezzare è il circolo vizioso che ormai da tempo si è innestato nella nostra Nazione per cui il lavoro è strumento di odio politico di ideologia e di inutili chiacchiere, così mentre tutti si affannano a parlarne, a combattere per esso, ma molto pochi poi sono decisi d intraprendere, quella che è poi la scommessa della vita che si chiama lavor.
Ad Maiora

giovedì 22 ottobre 2009

LA JIHAD DEI TERRORISTI, IL JIHAD DELL’ ISLAM.

Il titolo dato a questo testo ha un chiaro intento provocatorio mirante a dimostrare come le scelte dell’ integralismo islamico, e la dimensione georeligiosa che esso ha del mondo non siano aderenti al comune sentire dell’ universo musulmano cosiddetto moderato. Nel comune sentire mediatico il termine jihad comporta una rapida associazione mentale che conduce ad immagini quali le Torri Gemelle fumanti a New York, la metropolitana di Madrid, i bus di Londra distrutti, e quanto altro
l’ iconografia dello pseudo giornalismo, carico di immagini e privo di contenuti, ci ha trasmesso in questo primo scorcio di terzo millennio. In realtà le cose non stanno proprio come le si vuol far apparire. Al fine di consentire una più chiara comprensione di quanto si andrà di seguito ad esporre è necessario fare alcune premesse concettuali nel merito di temi quali la guerra e la volontà, rispettivamente nella concezione occidentale ed islamica dei termini. Nel mondo occidentale si discute di guerra già dai tempi dell’ antica Grecia; storici e filosofi, sociologi e politologi di ieri e di oggi si sono cimentati e si cimentano in interpretazioni della guerra più o meno condivisibili, ma che comunque giungono tutte alla stessa considerazione ultima, la guerra è l’ espressione armata e cruenta di un conflitto fra Stati o gruppi politico-sociali organizzati, in cui viene impiegata la forza militare per imporre ad un avversario la propria volontà[1]. Insomma la guerra assume la dimensione spirituale dello scontro tra volontà in cui le parti in lotta utilizzano tutti i mezzi idonei al raggiungimento dei loro scopi. La forza del concetto appena espresso causa un effetto domino che alla temperie morale fa aggiungere elementi politici, in quanto la guerra non è mai staccata dalla politica, fattori economici, poiché ogni guerra comporta dei costi e dei ricavi ed elementi psicologici, poiché quanto più un gruppo e coeso, tanto più grande sarà la sua volontà e tanto maggiore la forza impressa da questo per il raggiungimento dei propri obiettivi. La concezione appena espressa discende da una visione della Guerra che si potrebbe definire Razionale-Clausewitziana, essa è il frutto di quanto teorizzato in un mondo sorto dalle ceneri di Westfalia, dove i soggetti agenti delle guerre erano gli Stati Nazione, i quali fondavano il loro operare su concetti razionali quali l’ interesse nazionale, la minaccia e l’imperio politico economico, servendosi di Forze Armate di popolo o professionali, intese quali soggetti esecutori a-razionali, cioè privi della facoltà di scegliersi il conflitto. Ovviamente come in tutte le cose umane la dimensione irrazionale è da considerarsi una costante, ma l’ imposizione di un centro di gravità dell’ azione militare[2] e una ferma volontà hanno sempre consentito ai sistemi politici di arginare i danni dovuti all’ imponderabile. In conclusione l’ occidente dà alla guerra una dimensione strutturata e razionale fondata su alcuni dati certi e su una parte di imponderabilità che si potrebbe definire controllata. Spostando l’ analisi verso il mondo islamico la situazione cambia radicalmente poiché cambia il pregresso, cioè le esperienze ed i fattori che influenzano il concetto di guerra e di volontà. Mentre il mondo Occidentale nasce dalla sedimentazione di culture che, anche se molto diverse tra loro, con il tempo si sono compenetrate, il mondo islamico è il frutto di una verità rivelata che si è innestata in un mondo gia consolidato tramutandolo da mondo politeista e tribale ad universo monoteista e socialmente organizzato. La scelta del termine universo non è casuale poiché il concetto di Jihad, come poi vedremo è profondamente legato alla dimensione universale propria della religione islamica. Tornando alla guerra c’ è da dire che nell’ Arabia pre-islamica il concetto di guerra, inteso come scontro armato tra gruppi, assumeva una dimensione poco affine al nostro sentire comune, gli scontri erano per lo più dovuti a razzie e vendette, ghazwa in Arabo. La razzia assumeva un ruolo di carattere pedagogico e selettivo, in sostanza consentiva ai giovani di dimostrare le proprie capacità, la propria virilità e quindi l’ attitudine alla guida del gruppo, la vendetta invece era un modo primitivo e settario di amministrare la giustizia fondato sul diritto di lavare con il sangue un oltraggio subito; tale comportamento ha grande affinità con fenomeni quali le faide e le guerre di mafia, ancora oggi praticati in alcuni paesi del mediterraneo, tra cui l’ Italia. Soltanto rare volte tuttavia tali scaramucce crescevano di dimensione fino a raggiungere l’ entità di vere e proprie guerre che in arabo prendono il nome di Harb e qital. A tali forme di acquisizione e conservazione del potere ovviamente non si sottrasse nemmeno il profeta Maometto, il quale per affermare la propria forza contro i gruppi leader della penisola araba dovette cimentarsi, alle volte in prima persona in Maghazi che è il plurale della parola ghazwa, tuttavia mai tali episodi prenderanno il nome di harb o qital . Da quanto appena esposto si può facilmente dedurre che il comune pensiero, diffuso soprattutto nel mondo occidentale, di un Islam macchiato originariamente dal peccato della guerra, o come propagandato i terroristi, guidato fin dalle origini da un profeta armato, siano asserzioni prive di fondamento storico. Certamente anche l’ Islam visse una fase bellica, tuttavia questa fu posteriore a Maometto, e certamente non può ritenersi una colpa, il mondo Musulmano aveva superato la dimensione metafisica imposta dal profeta, aveva impresso dei cambiamenti nella società araba, sostanzialmente anarchica e tribale, aveva una visione universalistica del mondo e della religione, come il cristianesimo d'altronde, pertanto l’ unico modo per espandersi era quello di scontrarsi con le potenze politiche e militari ad esso vicine. La spinta propulsiva del mondo musulmano si esaurì dopo circa 130 anni dalla sua nascita e cioè nel 751 quando l’ espansione ad oriente fu fermata dall’ impero cinese e fu in questo periodo che il grande impero musulmano ebbe la sua massima estensione, dalle coste dell’ Atlantico al cosiddetto Levante. Tuttavia la repentina espansione non aveva permesso ai fedeli della nuova religione di darsi strutture burocratiche efficaci ed efficienti, dovettero pertanto far ricorso a quanto già costruito da bizantini, sasanidi e copti, sperando che gli “infedeli” alla guida del potere politico non voltassero improvvisamente le spalle. In conclusione possiamo dire che il mondo musulmano nasce in una dimensione metafisica e tribale , conosce la guerra quando ha la necessità di espandere la propria concezione universalistica della fede e del mondo e si affida alle strutture burocratiche dei popoli conquistati assorbendone la capacità di gestire la cosa pubblica. A fronte di quanto detto fino a questo momento non si è fatta però menzione alcuna della parola jihad, questo perchè la guerra per la diffusione dell’ Islam, viene sempre chiamata sia negli hadit che nel Corano harb o qital. Qual è allora il significato di Jihad e perché oggi viene interpretato dagli integralisti come la guerra santa, mirante alla distruzione degli infedeli? La parola Jihad che in arabo è di genere maschile, contrariamente a quanto citato dai media nostrani, deriva dalla radice araba jhd che vuol dire sforzarsi, applicarsi a qualcosa. Maometto stesso in uno dei suoi famosi hadit, fonti della legge islamica, afferma che le azioni più importanti del musulmano sono nell’ ordine la preghiera, la riverenza verso i genitori e l’ impegno personale e collettivo sulla via di Dio, tale impegno è tradotto con il termine Jihad. Nel corano alla Sura (25,52) si torva al frase “Perciò non obbedire ai miscredenti, ma combattili vigorosamente con il Corano[3]. E’ evidente il senso morale che ha questo versetto e la dimensione metafisica che ha il verbo combattere, tanto che se alla parola combattimento si sostituisce il termine sforzo il senso rimane assolutamente inalterato. La teoria appena esposta trova riscontro anche se si analizza la guerra intesa come scontro violento, infatti sempre nel Corano si dà ampio spazio agli eventi conflittuali intercorsi tra Maometto ed i suoi rivali meccani, tuttavia, mentre la radice semantica utilizzata per indicare lo scontro morale con il male e mirante alla redenzione degli infedeli è sempre jhd, nel momento in cui si citano fatti bellici documentabili storicamente le radici usate sono qtl e hrb che indicano il combattimento finalizzato alla distruzione, a tale proposito si può citare la Sura (9,13) in cui si ricordano i fatti bellici della battaglia di Hunayn a cinquanta chilometri dalla Mecca, tra Maometto ed i notabili detentori del potere politico ed economico. Non bisogna certo ritenere che il Corano parli della guerra solo nei riferimenti a fatti storici, vi sono anche esortazioni alla difesa ed
all’ offesa, alla sopportazione ed al martirio, tuttavia la cosa interessante è che in tutti questi ambiti rimangono invariate le radici qtl e hrb. A questo punto è giusto chiedersi quando il termine Jihad ha assunto il suo significato attuale, e quali ragioni abbiano spinto parte del mondo islamico al salto dalla tensione morale verso il jihad della spada. La grande crisi economica, sociale e morale che ha colpito i paesi del terzo mondo, area in cui è prevalente la religione islamica, a seguito delle lotte per la decolonizzazione prima e con l’ avvento degli stati nazionali poi, ha comportato la nascita di gruppi integralisti che si oppongono sia ai regimi locali, sia al sistema imperialista di ieri e globalizzato di oggi. Insomma il termine Jihad ha subito una potente strumentalizzazione volta a sollevare l’ orgoglio religioso della cosiddetta nazione islamica, un orgoglio che si richiama ai concetti di dar al-islam e dar al-harb[4] che sono la sintesi di tutto ciò che è islam e tutto ciò che non lo è facendo così diventare il terrorismo islamico un terrorismo di tipo georeligioso, poiché lega Dio alla terra e l’ espansione della fede in Allah all’ espansione dei possedimenti territoriali di quello che agli occhi dei fanatici integralisti dovrebbe essere il califfato universale. Insomma il Jihad come noi oggi lo osserviamo dai media non è altro che una forma strumentale utilizzata da gruppi di fanatici i quali si sono verosimilmente inseriti in due vuoti, quello politico degli stati nazione musulmani, nati a seguito della decolonizzazione e quello socio economico generato dalla non accettazione del modello di vita occidentale costruito sul laicismo e sull’ edonismo. Ovviamente la mancata condivisione, da parte dell’ Islam radicale, di tale realtà comporta la nascita di strutture politiche e sociali nuove, o meglio differenti dalle nostre, tra queste spicca una particolare concezione della guerra, fondata su una strumentalizzazione del concetto di lotta, di tensione morale e di conversione del mondo alla dottrina islamica, non strutturata su impalcature razionali e di fatto priva di un esercito organizzato e di un end state definito. Fintanto che continueremo ad usare le unità di misura occidentali per capire, o meglio cercare di capire tali realtà, i risultati saranno scarsi e la Jihad dei terroristi potrà proliferare a scapito del Jihad spirituale predicato nelle pagine del Corano.
[1] S. Cotta, “Guerra e diritto a confronto”, in C. Jean, “La guerra nel pensiero politico”, F. Angeli, Milano 1987 pp. 133-153
[2] Il centro di gravità di uno scontro bellico è inteso come l’ intersezione tra i propri obiettivi politico militari e quelli del nemico, ed è il punto su cui concentrare tutte le forze al fine di imprimere la propria volontà, in C. Jean, “Guerra Strategia e Sicurezza”, Editori Laterza, Bari 1997, p. 26
[3] C.M.Guzzetti, “Il Corano” Editrice Elle Di Ci, Torino 1993 pp. 208
[4] “Terra dell’ Islam e terra della guerra” in G. Vercellin “Jihad”, Giunti, Firenze 2001, p. 18

mercoledì 21 ottobre 2009

Il valore del lavoro

Il dibattito è ormai acceso ed imperante: "Il lavoro è un valore o meno?" La domanda appare sciocca anche perchè il problema ha una valenza meramente mediatica, nessuno è realmente intenzionato all'approfondimento, pertanto se ne discuterà per due settimane al massimo e poi di nuovo l'oblio, ma siccome cavalcare l'onda della notizia ed esprimere qualche opinione non è mai un male, eccoci qui. Facendo un po' i qualunquisti potremmo osservare come, nel sentimento proprio di chi un lavoro lo ha esso non è esattamente percepito come un valore, d'altronde chi non ha mai sentito la frase " Io lavoro per vivere, non vivo per lavorare" o metafore simili che sottolineano come il lavoro, meridionalmente definito " a fatic' " non sia esattamente qualcosa a cui anelare, bensì solo un onere da accollarsi per garantirsi il benessere futuro, ma se il lavoro non è l'oggetto del desiderio cosa altro interessa l'uomo comune, sicuramente i frutti del lavoro, quel guadagno materiale, tanto disdegnato da molti, ma senza il quale lo spirito non può fornire i suoi anelati frutti, insomma la si dica tutta, se non si magna non si pensa, non ci si muove, non si prega, non si fa l'amore e tutto il resto, in questi modo torniamo all'assunto popolare per cui si lavora per vivere. La scelta di cominciare il discorso con una digressione fatta di luoghi comuni vuole consentire di percepire il problema per quello che realmente è, un problema culturale, e non politico o ideologico, un problema culutrale che divide perchè in questa circostanza i sostenitori del lavoro come valore sono proprio quelli che un lavoro non ce l'hanno e spesso nemmeno lo cercano, chi ritiene il lavoro un valore, " a fatic' " la aspetta dall'alto, come una manna biblica, della quale peraltro il consumo deve assolutamente essere contenuto altrimenti si fa un torto al Boss che questa manna la deve distribuire un po' a tutti, soprattutto la deve distribuire in modo equo, affinchè nessuno si strozzi, affinchè insomma nessuno si ammazzi di fatica. Dall'altra parte di questa ideale palizzata vi è poi chi il lavoro lo disprezza, perchè ne percepisce le difficoltà ed al contrempo l'utilità, come si trattasse di una amara medicina, che fa tanto bene, ma anche tanto schifo, chi di cose da fare oltre a lavorare ne avrebbe tante, chi ama i saperi in quanto tali, chi ama l'arte, il bello ed il buono della vita, ebbene sì, questi soggetti il lavoro lo cercano con determinazione, con caparbietà e loro malgrado lo trovano, ma non lo considerano un valore, lo considerano uno sturmento per la creazione di valori e questo fa la differenza, in quanto svilisce il protagonista del nostro discorso e lo rende abbordabile. Da che parte stare? Ognuno come sempre sta dalla parte che gli conviene di più, anche se vorrei fornire degli spunti di riflessione utili a fare una scela ponderata. La costituzione americana esordisce con " We the people"...et cetera..." promote the general welfare and secure the blessing of liberty" et cetera. La costituzione francese esordisce invece con "Il popolo francese proclama solennemente la sua fedeltà ai diritti dell'uomo ed ai principi della sovranità nazionale così come sono stati definiti dalla dichiarazione del 1789"...et cetera. Quella tedesca esordisce con "La dignità dell'uomo è intangibile"...et cetera. Insomma in nessun preambolo di quelli letti si parla di lavoro come valore fondativo dello Stato, nella nostra Italia invece? Tutti conoscete l'articolo 1 della nostra costituzione. In conclusione aggiungo un ulteriore elemento, un esordio costituzionale che non farà sentire soli tutti gli italiani " Russia is declared to be a republic of the Soviets of Workers', Soldiers', and Peasants' Deputies all the central and local power belongs to these soviets"... che vergogna!

lunedì 19 ottobre 2009

La prima volta

C'è sempre una prima volta, un primo passo, un primo gesto, ecco qui un nuovo inizio, informatico, telematico, moderno ed antico al tempo stesso, moderno per lo strumento impiegato antico per la finalità che si propone. Dare uno spunto, fornire delle idee ed offrire uno spazio di accoglienza a chi le proprie idee le vuole condividere e confrontare. Non ci sono ostacoli alle produzioni dell'intelletto, non ci sono limiti a quanto di buono e di creativo ciascuno di noi può offrire all'altro. Ovviamente tutti i commenti, i contributi, le critiche, le idee, saranno utilizzate dal redattore capo del Romolo d'Italia per incrementare la propria di conoscenza, pertanto qualsiasi rigurgito di volgarità, concetto fuori luogo o che comunque possa violare il comune sentire di buona educazione e signorilità verrà immediatamente castrato, sì avete compreso bene, non cassato, ma castrato, perchè eliminare l'idea di qualcuno la si ritiene una castrazione, poichè si elimina la potenza vitale che è propria dei pensieri, intesi non solo come frutti della mente, ma soprattutto come semi del sapere.